di Claudia Stritof
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Pier Paolo Pasolini, nel maggio del 1958, scrive sulle pagine di Vie Nuove:
«Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano. […] La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto».
Una descrizione vivida in cui Pasolini coglie la vera essenza del Mandrione, borgata della periferia romana, nota per essere una zona degradata, abitata in passato da derelitti, meridionali emigrati, zingari e sfollati. Con le sue baracche fatiscenti, il fango per le strade, i bagni di fortuna e le pessime condizioni igieniche, il Mandrione tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento è diventato oggetto di interesse da parte di intellettuali e fotografi.
Siamo nell’Italia del boom economico, le industrie del nord producono a ritmo serrato, le città vedono sorgere nuovi quartieri. La vita diviene sempre più frenetica, i giovani si ritrovano nei bar a discutere dell’ultima partita di calcio e nascono le prime piste da go-kart.
Collocata al limite della città brulicante di persone, la campagna stava vivendo il canto del cigno e zone prima votate a pascolo ora venivano occupate da macchine parcheggiate e Vespe fiammeggianti. La trama è simile per tutte le città e risultati di questa drastica speculazione edilizia – descritta negli stessi anni da Italo Calvino – diventerà sempre più evidente nei decenni successivi.
Al Mandrione – il cui nome evoca l’antica usanza di portare le mandrie al pascolo – confluì tanta povera gente, anche coloro che furono costretti ad abbandonare San Lorenzo dopo i bombardamenti del 1943. Dopotutto gli archi dell’acquedotto del Mandrione erano un ottimo rifugio per chi ormai non aveva più una casa, né i soldi per costruirla o acquistarla. La strada non esisteva: solo terra e rifiuti, le baracche erano costruite con mezzi di fortuna e le condizioni igienico-sanitarie inesistenti.
La fantomatica riqualificazione del Mandrione era un argomento all’ordine del giorno per la politica romana, ma in realtà – come spesso è accaduto nella storia del Bel Paese – si dovranno aspettare gli anni Settanta per assistere a delle concrete politiche di riqualificazione urbana.
Tra il 1975 e il 1984 fu Angelina Linda Zammataro, psicologa e pedagogista, a intraprendere un programma sperimentale per favorire l’integrazione della comunità zingara del Mandrione all’interno della scuola pubblica; così come importanti furono le inchieste pubblicate in questi anni da studiosi, giornalisti e fotografi. La RAI produsse due documentari dal titolo Al margine ed Essere zingari al Mandrione a cura di Gianni Serra e contestualmente vennero realizzate due mostre fotografiche: Crescere zingaro al Mandrione e Zingaro a tre anni al Continente Infanzia.
Era l’aprile del 1956 quando l’antropologo Franco Cagnetta e il fotografo Franco Pinna realizzano l’inchiesta sul Mandrione, trovando l’appoggio dell’editore Giangiacomo Feltrinelli. Dai momenti dedicati alla musica, ai balli tradizionali: ogni dettaglio è stato colto da Pinna. Baracche, prostitute, angusti interni di case, pasti frugali, orti, falò serali durante le fredde notti romane, bambini sporchi di fango a piedi nudi sullo sterrato e vestiti con stracci.
Questo era il Mandrione. Un’isola dimenticata da Dio, una terra di nessuno, che ora per la prima volta veniva scrutata con attenzione, non per essere commiserata o denigrata, ma per essere compresa e fatta conoscere.
Franco Pinna, nato a La Maddalena nel 1925, è stato un grande fotogiornalista italiano, noto anche per aver partecipato come fotografo alla spedizione in Lucania insieme a Ernesto De Martino e Franco Cagnetta. Dopo un periodo di militanza nella Resistenza, costituisce insieme ad altri fotografi la cooperativa Fotografi Associati, collaborando con numerose riviste dell’epoca, sia italiane che straniere. Il suo primo libro fotografico, La Sila, è del 1959 con testi a cura di Ernesto De Martino, mentre nel 1961 esce Sardegna, una civiltà di pietra. Pietre miliari da leggere e custodire gelosamente.
Dal 1965 diventa fotografo di scena per i film di Federico Fellini, tanto che nel 1977 verrà pubblicato il libro fotografico Fellini’s Film, contenente molte delle foto di Pinna; ma il suo tempo è ormai giunto al termine e il fotografo muore il 2 aprile del 1978 a Roma, lasciandoci un importante archivio fotografico attento a ricordarci la nostra storia e il nostro passato.
Revisione dell’articolo Il vicolo del Mandrione nelle fotografie di Franco Pinna pubblicato sul sito www.cultmag.it di proprietà della stessa autrice in data 29 dicembre 2018.
21 aprile 2021
Vi segnalo che anche i due documentari prodotti dalla RAI sui Rom abruzzesi del Mandrione (regia di G. Serra) sono di Angelina Linda Zammataro (all’epoca conosciuta come Linda Fusco). Cordiali saluti
Buonasera, dove è possibile reperire per la visione questi due documentari? Grazie