SISTEMA FESTIVAL FOTOGRAFIA: IDENTITÀ, STRATEGIE E PROGETTUALITÀ

Chi sono i direttori artistici dei cinque Festival che nel 2017 hanno dato vita al Sistema Festival Fotografia?
Quale il loro punto di vista sullo stato dell’arte della fotografia in Italia oggi? Quali le consonanze e quali le differenze nelle ricerche e nelle progettualità che hanno costruito in questi anni? Abbiamo chiesto loro di confrontarsi direttamente, in una sorta di intervista a catena.

Fotografia Europea 2019 © Giulia Gibertini

Enrico Stefanelli (Photolux Festival) per Walter Guadagnini (Fotografia Europea)

In questi anni di direzione artistica per Fotografia Europea qual è stato il percorso di ricerca, quali gli obiettivi che vi siete posti? Che cos’è cambiato dal 2015 ad oggi?
Dipende da che punto di vista si guarda a questa domanda: da quello del rapporto col pubblico, l’obiettivo principale è stato quello di far incontrare le attese del pubblico generico con quelle degli addetti ai lavori. Crediamo che i termini di ricerca e popolarità non siano incompatibili, bisogna però trovare il giusto punto di equilibrio tra i due. Dal punto di vista invece dell’identità del Festival, abbiamo cercato di fornire dei temi che non fossero solamente legati all’attualità, ma che permettessero uno sguardo più ampio. Nel rapporto con la città, abbiamo cercato di valorizzare, anche fornendo loro una cornice, le mille iniziative che sono nate spontaneamente intorno al Festival, e al contempo di sfruttare le mostre per restituire alla città spazi meno conosciuti, a volte recuperati o riaperti proprio in questa occasione. Strutturalmente, con l’ingresso della Fondazione Palazzo Magnani nell’organizzazione del Festival, c’è stato un cambiamento essenziale nel processo di costruzione di quest’ultimo e del suo posizionamento tra gli eventi cittadini.

Hai rivestito ruoli diversi nel campo della fotografia – tra gli altri, dal 2016 sei anche direttore di CAMERA Torino – cosa cambia nel tuo approccio curatoriale quando lavori al Festival?
Bisogna considerare, a mio vedere, la situazione particolare che vive la fotografia in Italia: la cronica e ancora vigente carenza di spazi istituzionali preposti alla conservazione e alla diffusione della cultura fotografica, fa sì che i festival debbano spesso svolgere un ruolo di supplenza di un’attività che in altre nazioni viene sviluppato, lungo tutto l’arco dell’anno, dalle istituzioni. Arles, per fare un esempio, è in un paese dove esistono solo a Parigi il Jeu de Paume, Le Bal, la MEP, lo spazio dedicato alla fotografia del Centre Pompidou, e mi fermo per carità di patria… Ecco, i festival italiani non vivono in questa condizione, per cui in qualche modo credo si abbia una grande responsabilità dal punto di vista della diffusione non solo del linguaggio, ma anche della cultura fotografica in senso lato. In questo senso, per quanto riguarda la mia esperienza personale, non è diversissimo dal lavoro che realizziamo quotidianamente a CAMERA. Quello che cambia profondamente è che in un Festival ti giochi tutto in poche settimane, se sbagli qualcosa puoi provare a rifarti solo dopo dodici mesi, quindi è chiaro che l’aspetto dell’immediato riscontro di quello che si propone è tutt’altro che secondario.

Una domanda alla quale forse non c’è risposta, ma che tutti noi ci stiamo ponendo, oggi più di ieri, viste anche le difficoltà emerse con la pandemia da Covid-19. Qual è il futuro dei Festival? Quale la direzione da prendere?
Diciamo che la prima direzione è stata quella di ricercare nuovi spazi, all’aperto, il che evidentemente non è facile, perché le soluzioni più cheap sono oggi – per un pubblico che fortunatamente è diventato più avvertito anche grazie al lavoro dei festival, nonché per gli autori stessi – improponibili, e le soluzioni più affascinanti, che pure esistono, pongono problemi di vario genere, da quelli economici a quelli della qualità dell’opera a quelli della sua conservazione, anche solo per il breve periodo di un Festival. Allo stesso modo, è vero che una delle ragioni di vita dei Festival è quella di essere luoghi di incontro, si va ad un Festival non solo per vedere le mostre o assistere alle conferenze, ma anche per incontrare le persone: se gli spostamenti sono più difficili, anche questo aspetto viene messo in discussione – e con esso dunque l’identità stessa del formato Festival. Insomma, occorre una riflessione ampia, che non si fermi all’eccezionalità del momento, ma sappia capire la direzione che va prendendo tutto il mondo legato agli eventi culturali.

Cortona On The Move 2020

Walter Guadagnini (Fotografia Europea) per Arianna Rinaldo (Cortona On The Move)

Qual è la parte che ami di più del tuo lavoro?
Sono tanti gli aspetti che amo del mio lavoro. In primo luogo, la possibilità di accedere, attraverso il lavoro incessante di fotografi/e a visioni del mondo così diverse, semplici e complesse, sofisticate e dirette, che mi permettono, ogni giorno, di riflettere sul mondo intorno a noi, su chi siamo e su quello che vogliamo. In secondo luogo, adoro seguire progetti a lungo termine, accompagnare l’evoluzione di un lavoro, insieme al suo autore o alla sua autrice, testimoniando quello che è un impegno, onesto e approfondito. Sono affascinata dalla coerenza di autori e autrici che perseguono un racconto, un filone, una storia necessaria, con la convinzione forte e inevitabile che debba essere raccontata. Amo il ruolo di mentor, inteso come accompagnatrice di un processo di crescita e di evoluzione di un/una artista e del suo progetto.
Ammiro la resilienza del mestiere del fotografo e dell’artista, in tutte le sue declinazioni. Non mi stanco mai di ricercare visioni originali e di vedere storie nuove e percepire, da chi le ha prodotte/create/editate, le sfumature di significato e i possibili effetti collaterali che possono provocare: in primis, farci riflettere sul posto che abbiamo nel mondo.

Che tipo di rapporto crei con gli artisti con cui lavori?
In generale, cerco sempre di avvicinarmi il più possibile al loro mondo, entrare nella loro testa, guardare con i loro occhi. Tento di capire le ragioni del lavoro, il trigger iniziale del percorso e soprattutto quale può esserne il “futuro” nelle sue varie forme. Sono molto pragmatica, quindi, con i piedi per terra, mi muovo in una direzione di fattibilità. Dalla concezione, alla realizzazione. Mi piace sempre capire “da dove vengono” e “dove vogliono arrivare”.
Credo di essere una buona ascoltatrice: di saper cioè recepire dagli artisti con cui lavoro, e in maniera abbastanza rapida e intuitiva, quella che è la loro intenzione, il perché, il concept del progetto. Quando scatta questo “clic”, il rapporto di lavoro diventa fluido, costruttivo e spesso, continuativo.
Però, nel ritmo a volte accelerato di certi progetti, non sempre si trova il tempo per una conoscenza approfondita come vorrei. A volte, le esigenze di produzione e creazione del lavoro non lasciano spazio a quella parte di conversazione approfondita che vorrei anticipasse l’evoluzione di un progetto insieme.

Qual è stato il momento più difficile in questi 10 anni di direzione artistica di Cortona On The Move? E quale invece quello più entusiasmante?
I momenti difficili sono stati essenzialmente due. Il primo e l’ultimo, e ovviamente per motivi diversi.
Alla mia prima edizione, nel 2012, credo che affrontare le giornate inaugurali sia stato un dramma interiore immenso. Senso di inadeguatezza, inesperienza, timore, avevano il sopravvento, al punto che ho un vuoto totale di memoria relativa a quei primissimi giorni di presentazione. La soddisfazione per il lavoro fatto è stata poi immensa, e si è unita alla gioia della squadra e del pubblico che ha partecipato nel dare vita a quei primissimi passi nell’evoluzione di quello che è oggi il festival di visual narrative, Cortona On The Move.
Difficilissimo è stato anche il momento di chiusura delle giornate inaugurali di questa edizione 2021, la mia decima e ultima. Ancor più difficile descriverlo, dare un senso a un misto di emozioni che raccolgono anni di passione, complicità, creazione, aspettative, soddisfazione, sfide, successi, nella consapevolezza che, come quando un figlio se ne va all’università, devi essere felice e orgogliosa, pur sentendo un gran vuoto dentro e, già da subito, tanta nostalgia.
Entusiasmante è stata ogni edizione; nello specifico il momento di inaugurazione quando il lavoro di un anno intero si focalizza nell’esperienza di pochi giorni, prende forma ed è disponibile per gli occhi di tutti. Gli incontri, lo stupore, i sorrisi, gli sguardi: sentire che, anche questa volta, il lavoro fatto è stato buono, e ci spinge, inesorabilmente, a continuare a trovare idee e modi nuovi di confrontarci con la fotografia.

Partendo da questa esperienza, secondo te quale ruolo specifico può svolgere oggi un festival di fotografia, rispetto ad altre manifestazioni culturali?
Spesso sento dire che ci sono troppi festival di fotografia. In Italia, in Europa, nel mondo. Non posso essere meno d’accordo. Ben vengano! Ognuno con le sue caratteristiche, la sua missione e il suo pubblico. La bellezza dei festival è, lo dice il nome stesso, la celebrazione. Il ruolo reale e nobile di portare l’arte fotografica nelle piazze, nelle cittadine, nelle chiese, nei palazzi antichi, per strada, nei parchi è fondamentale. La fotografia è un linguaggio “democratico”, si dice, e ancor più nel nostro mondo iper-visivo e benignamente voyeur.
I festival di fotografia hanno quindi quel ruolo di filtro, di selezione (simile a tutti gli operatori del settore, photo editor, curatori, editori, on e offline) e di guida nella presentazione dei racconti visivi del contemporaneo che raggiungono un pubblico che spesso diventa un compagno fedele nel tempo, grazie a quella fortunata combinazione di storytelling, incontri, e magia che costituiscono la base “umana” dei festival.

SI Fest 2020 © Margherita Cenni

Arianna Rinaldo (Cortona On The Move) per Denis Curti (SI FEST)

Per chi ha vissuto l’evoluzione del mestiere e del linguaggio fotografico così da vicino negli ultimi 30+anni, oltre alla rivoluzione digitale, quale ritieni sia il cambiamento/evento più impattante di queste decadi e perché?
L’evoluzione del mestiere e del linguaggio in ambito fotografico, a mio parere, ha a che fare con l’idea che oggi abbiamo delle immagini. Il digitale è stato portatore di democrazia e ci ha concesso il privilegio di approcciarci alle immagini con maggiore spontaneità. Oggi le fotografie sono “amiche e confidenti” e dentro di esse guardiamo noi stessi in rapporto con gli altri. Realizzare una fotografia, spesso, significa cercare e creare relazioni. Diciamo che nessuno “scatta” solo per se stesso. Quindi il cambiamento più impattante riguarda noi, riguarda i nostri sentimenti e le emozioni che decidiamo di condividere.

Nel tuo mestiere di curatore e oltre, quanto ritieni importante la conoscenza personale e prolungata con un fotografo nel percorso di lavoro insieme e come si è modificata questa relazione, per via del sempre meno frequente contatto “reale” sostituito da quello “virtuale”?
Posso riferirmi a un caso specifico. Quello con David LaChapelle. In sintesi, posso dire, che dopo aver lavorato molto insieme, ma a distanza (soprattutto per motivi logistici e non per le conseguenze della pandemia) c’è stato un incontro in presenza nel suo studio a Los Angeles e dal quel momento la mia relazione professionale con lui è cambiata. Ho potuto toccare con mano la sua quantità umana e la sua passione. Ci siamo confrontati molto sulla sua idea di fotografia intesa come arte scenica, come costruzione di un mondo parallelo. Discutere di questi temi in presenza, mentre cammini in uno studio immenso  e spettacolare in cui sono conservate le scenografie delle sue foto più significative ha un valore aggiunto incredibile. In sintesi, posso dire che considero un privilegio poter “incontrare” i fotografi, lavorare con loro, frequentare gli studi e gli archivi. Questa modalità di lavoro aumenta la complicità e consente una più profonda conoscenza del loro progetto. Il lavoro a distanza non fa per me.

Molti fotografi moderni e contemporanei non hanno studiato fotografia, sono ingegneri, architetti, informatici. Quanto è importante la formazione accademica nel settore, e quali altri “sistemi di apprendimento” validano e approfondisco il mestiere del fotografo?
È come dici tu. Tra i grandi c’è chi ha studiato economia, filosofia, storia, architettura… Credo comunque che lo studio sistematico della fotografia resti importante, direi determinante. Mettiamola così: gli autori più interessanti che mi capita di incontrare hanno fatto studi di diverso tipo e genere. Acquisita una certa consapevolezza, hanno tutti deciso di approfondire la “questione fotografia” cercando un corso specializzato, un master, un tirocinio all’estero. In sintesi, penso che un fotografo debba costruirsi il proprio profilo culturale, perché quel bagaglio sarà poi utile per approfondire le vicende che hanno a che fare con le immagini. Si vede solo ciò che si conosce e solo così lo si può raccontare.

Se la vita non ti avesse portato a essere così intrinsecamente legato al mondo della fotografia, come curatore e oltre, cosa farebbe Denis Curti oggi? E invece, come curatore, così consigli ai giovani di oggi che vogliono intraprendere questa strada professionale?
In alternativa alla mia professione, che amo molto, avrei scelto di fare l’avvocato. Sono animato da un profondo senso di giustizia. Ai giovani che intendono dedicarsi alle diverse professioni legate al mondo della fotografia suggerisco di investire su  una ricca formazione culturale in senso lato e specifica, di visitare musei e mostre e di frequentare ambiti di scambio e confronto.

Festival della Fotografia Etica, 2019

Denis Curti (SI Fest) per Alberto Prina (Festival della Fotografia Etica)

Quale tipo di bilancio è possibile fare di questi 12 anni di Festival della Fotografia Etica? Qual è il legame del Festival con la città di Lodi e quale con le sue istituzioni?
Dodici anni costituiscono una storia e un patrimonio che è possibile ormai definire consolidato e importante.
Tra i più grandi autori nel settore del fotogiornalismo internazionale e della fotografia documentaria hanno nel tempo lasciato al Festival un corpus di materiale, esperienza condivisa e cultura fotografica. L’obiettivo di coinvolgere un pubblico eterogeneo non si è mai fermato, neanche in periodo di pandemia, e costituisce sicuramente un’esperienza particolare e caratterizzante, supportata dai fotografi che incontrano i visitatori. Parallelamente la sua vocazione fortemente orientata alla formazione e all’educazione al linguaggio fotografico è diventata un elemento di rilievo a livello nazionale. L’internazionalizzazione delle mostre e degli autori ha contribuito a creare una visione globale e una cultura importante, consolidata e condivisa. Molti sono ancora gli obiettivi da raggiungere, tra cui la creazione di un circuito espositivo costante per tutto l’anno e itinerante, promuovendo e consolidando il brand Fotografia Etica attraverso collaborazioni nazionali e internazionali. In questo scenario estremamente attivo ed energico il rapporto con le istituzioni ha ancora dei margini di crescita a dir poco sorprendenti.

Etica ed estetica: l’eterna battaglia all’interno dei confini della fotografia. Come se ne esce senza che nessuno si faccia male?
Fin dall’inizio il festival ha lavorato affinché la sua proposta espositiva tenesse uniti queste due elementi.
L’etica ha già dal nome del festival un carattere presente e determinante. L’estetica al servizio del cambiamento, della crescita umana e sociale, della consapevolezza come genere umano, è una prerogativa fondante lo spirito stesso dell’evento.
La consapevolezza del rispetto deontologico del fotogiornalismo, la sua spinta innata a raccontare e interpretare il reale sono sempre stati elementi di lettura, chiavi di registro e dialogo costante con le espressioni più estetiche e concettuali della fotografia.

Le vostre open call hanno sempre molto successo. Cosa significa questo “evidente” bisogno di fotografare? C’è l’intenzione del racconto? Tra i vari progetti prevale l’elemento dell’empatia o della narrazione voyeurista?
Il grande sforzo di condivisione dei valori della fotografia documentaristica è stato da sempre un motore di dialogo con l’eterogeneo mondo della fotografia. Scambio che spesso permette ai fotografi di esprimere la propria voce in call e concorsi. La grande partecipazione internazionale ha sicuramente alzato il confronto portando verso progetti le cui caratteristiche sono quelle dell’empatia, approfondimento e grande professionalità. La partecipazione voyeuristica, purché sempre presente nel tempo, costituisce una percentuale fisiologica e poco significativa.
Crediamo che promuovere una shortlist di fotografi selezionati abbia contribuito molto a creare cultura nel settore in quanto espressione di giurie internazionali composte da addetti ai lavori che ogni anno selezionano oltre 50 fotografi, i cui progetti possono essere visionati e presi a riferimento.
Il recente progetto di “Spotlight photographers meet the Masters” è un chiaro segnale di voler rendere le call non solo semplici “gare” ma anche confronto e crescita tra fotografi che hanno diverse formazioni e carriere professionali.

Photolux Festival 2019 © Tommaso Stefanelli

Alberto Prina (Festival della Fotografia Etica) per Enrico Stefanelli (Photolux Festival)

Perché oggi i Festival di fotografia sono ancora più necessari?
Più che necessari direi importanti, data la quasi totale mancanza, in Italia, di spazi istituzionali che mettano a disposizione della fotografia risorse, pensiero e programmazione solidi. Per questo i Festival si sono sentiti necessariamente investiti della responsabilità di colmare questa lacuna. Ma, in una sorta di spirale dalla quale è complicato uscire, non sempre sono riusciti a farlo nel modo migliore, dati il poco sostegno da parte delle istituzioni e l’imprescindibile difficoltà di reperire le risorse economiche necessarie per garantire una alta qualità delle proposte.
Inoltre in Italia, nell’ultimo decennio, si sono moltiplicati i Festival e gli eventi dedicati alla fotografia. Questa sovrabbondanza di proposte disorienta il pubblico; a mio avviso occorrerebbe una minore offerta ma più di qualità.
Direi, allora, che più che i Festival di fotografia, sono necessarie le buone pratiche che riescono a sviluppare, tanto quanto le strade e i progetti condivisi che riescono a costruire, soprattutto quando superano i localismi e lavorano in rete, come stiamo facendo con il Sistema Festival Fotografia.

Arte e vita, quale dialogo nella fotografia?
In ogni edizione del Festival, la sfida più ambiziosa che ci siamo posti è stata quella di declinare il tema portante superandone la narrazione convenzionale, proponendo livelli di lettura altri e aprendo scenari inediti nei quali anche un pubblico vasto, non completamente “attrezzato” alla fruizione dell’arte e della fotografia in particolare, potesse trovare elementi di risonanza e di riflessione.

Tra cinque anni come si vede Photolux?
Con l’incertezza di questo tempo straordinario che stiamo vivendo è difficile e quanto mai azzardato provare a dare una risposta a questa domanda.
Sicuramente i prossimi anni saranno anni di riflessioni, di ascolto, di studio e di ricerca. Va individuata, oggi più che mai, una strada nuova che tenga conto dei cambiamenti che il mondo della cultura sta maturando al suo interno.
Avevamo percepito quest’urgenza già alla fine dell’ultima edizione della Biennale, nel 2019. La prima contromossa che abbiamo messo in campo è stata quella di aprire la direzione artistica a un comitato che vede oggi al suo interno oltre a me e Chiara Ruberti, che segue il coordinamento del Festival dal 2015, anche Francesco Colombelli e Rica Cerbarano, nell’intenzione di costruire una visione nuova, fresca e condivisa, che sia in grado di intercettare istanze, tematiche e ricerche attuali.

::

Approfondiamo negli articoli scritti dalla nostra redazione, con la partecipazione di Benedetta Donato in qualità di guest contributor, le cinque realtà dei Festival e RESET. Sistema Festival Fotografia racconta la società contemporanea, il primo progetto di rete realizzato da Sistema Festival Fotografia nell’ambito dell’avviso pubblico “Strategia Fotografia 2020” promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura (MiC).

Fotografia Europea 2021 – Largo ai sognatori!

Appuntamento annuale imperdibile sulla contemporaneità, nel 2021 Fotografia Europea ha dimostrato una straordinaria capacità di ripensarsi in piena corsa. Al sogno giocoso e immaginifico ispirato a Rodari, in quest’ultima edizione si sono sovrapposte casualità e imprevedibilità, unite alla fantasia come antidoto e risorsa contro le difficoltà del reale.

SI FEST. Il festival fotografico più longevo d’Italia

Il festival ha compiuto trent’anni. Sono numerosi i nomi degli artisti, autori, fotografi e studiosi che hanno transitato da Savignano. “Futura. I domani della fotografia”: con questo titolo il direttore artistico Denis Curti ha voluto celebrare lo storico anniversario, con una riflessione sul presente, partendo dal passato, nel tentativo di dare una fisionomia al futuro della fotografia.

Festival della Fotografia Etica e il migliore fotogiornalismo internazionale

Può la fotografia essere testimone e veicolo di informazione ma anche di cambiamento di prospettiva? Il festival lodigiano, come ogni anno, pone il proprio obiettivo sulla scelta di sostenere la diffusione di un racconto del nostro tempo privo di limiti e scevro da una edulcorazione narrativa che, spesso, invade la cultura dell’immagine contemporanea. Proponendo un ampliamento di visione in ambito internazionale e consentendoci di spingere lo sguardo verso vite diametralmente opposte alle nostre.