Francesco Malavolta – Viaggio ai confini dell’umanità

Mar Egiziano, 2015. A bordo di una nave militare belga, in missione per la Comunità Europea. Le persone salvate furono 450 e non si registrarono vittime.
di Azzurra Immediato
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Quante forme ha il viaggio? Quali i luoghi dove esso conduce le nostre vite?

Alla parola “viaggio” accomuniamo concetti positivi come scoperta, pacifico allontanamento, vacanza o avventura. Nel nostro immaginario, che risente della tradizione letteraria classica, il viaggio per eccellenza è epico e, successivamente, legato alle grandi scoperte geografiche verso le Indie o le Americhe. Il Mediterraneo è uno dei perni attorno al quale la nostra civiltà si è mossa. Eppure, ancora oggi, l’idea stessa di “civiltà” compie innumerevoli errori legati anche al viaggio.

Ora che muoversi è diventato desiderio intangibile, ricordo o progetto futuro, c’è chi continua a viaggiare e non per vacanza o per una fuga da un’alienante realtà ma per tentare di sopravvivere, sradicandosi dalla terra natia, nella speranza di poter offrire a sé e alla propria famiglia un’opportunità, lontano da guerra, carestia, morte. Per affrontare questo “viaggio”, abbiamo scelto lo sguardo di Francesco Malavolta, fotoreporter, la cui memoria conserva e racconta quel che per molti è una vera peregrinazione ai confini dell’umanità. Il suo lavoro affronta quanto accade laddove l’Occidente ha posto un veto, barriere politiche, sociali, materiali per preservare la conquista di quella superiorità millenaria e di cui pare non riesca a fare a meno. Malavolta, appena rientrato da quella che è definita la “rotta balcanica”, è già in partenza per la Grecia, verso l’area ellenica diventata appiglio per profughi che inseguono il proprio sogno di vita. Ho avuto modo di porgli alcune domande che dipanano storie impensabili e attestano le difficoltà che solo l’umana gente sa imbastire e che le sue fotografie raccontano.

Porto di Pozzallo, 1 luglio 2014. Francesco Malavolta era nella città siciliana per documentare la tragica morte di 45 persone per asfissia, mentre al porto giunsero i 500 salvati dalla Marina Militare, tra cui questa famiglia siriana.

Nel tuo lavoro e nei tuoi numerosi viaggi, riesci ancora a distinguere quell’anacronistico confine tra Noi e l’Altro?

Credo ci sia una piccolissima o grandissima differenza tra noi e l’altro, a seconda di come la si intende. Un conto è se, in un luogo, l’altro conserva in maniera autentica la propria cultura, il proprio modo di vivere. Mi piace, ad esempio, quando arrivo in un posto, scoprire le differenze: basta anche solo pensare alla nostra Italia, alle molte diversità tra le varie regioni; quindi, quella diversità, intesa come “l’altro e io” e incontro di modi di vivere, va bene. Altro è se la differenza è rappresentata tramite forzature o divieti, mancanza di rispetto per i diritti umani o l’obbligatorietà di restare fermi in un punto a causa dei regimi politici che, in tanti Paesi, ancora dettano regole. Dunque, per la “parte umana” non ho mai visto la differenza tra me e l’altro; come individuo penso ci debba essere sempre il rispetto e che sia necessario vedere l’altro come una persona con i nostri stessi diritti.

Mar Mediterraneo, barca in avaria prima dell’arrivo dei soccorsi, agosto 2011. A bordo, 250 persone. Questa è una delle poche fotografie che, in 10 ore, fu possibile scattare perché il fotografo era come schiacciato dai migranti attorno a lui.

Identità e Dignità sono due facce di quella stessa medaglia che chi decide di intraprendere il viaggio della vita, le rotte della migrazione, porta in tasca. Quanta forza hai trovato in questi due paradigmi esistenziali?

Hai usato due termini cardine della nostra società. L’identità è quell’insieme di caratteristiche che rendono l’individuo unico nel suo genere e che deve essere associata alla dignità, da intendersi come il rispetto sul piano morale, un valore universale. Questi due termini, però, sembrano all’interno di una sorta di frullatore: la mancanza di ogni certezza; immaginiamo un uomo, una donna, un bambino che si trovano, senza colpe, in un conflitto, la casa bombardata e la perdita di tutto: il lavoro, un proprio caro, il sostegno economico. La privazione del lavoro, in quei Paesi dove è già raro o pagato pochissimi dollari al giorno, trasforma l’individuo in vittima di un sistema sbagliato, su cui noi occidentali lucriamo. Identità e Dignità sono parole semplici da descrivere ma complesse da capire davvero; spesso, le persone che incontro hanno perduto sia l’identità che la dignità, vivono nello sconforto e ciò succede anche dove i diritti umani dovrebbero essere storicamente garantiti come in Europa. Eppure, un intero sistema marcio permette a quelle persone di diventare invisibili. Bisognerebbe lavorare a favore del mantenimento o della ricostruzione di dignità e identità e questo non riguarda solo i tanti disperati che incontro e fotografo ma anche chi ci sta più vicino e ha bisogno di aiuto. Credo fermamente che solo quando tutto ciò sarà ristabilito con il giusto valore, solo allora sarà ripristinata la giustizia sociale.

Confine tra Grecia e Repubblica della Macedonia del Nord, settembre 2015. Un giovane porta in braccio la sua ragazza che ha un piede slogato, cercando di avanzare per non perdere il proprio turno di ingresso oltre il confine macedone.

Cosa ti spinge a raccontare quanto accade al confine delle nostre vite, delle nostre comfort zone? E quali sono i motivi che hai letto negli occhi di chi hai incontrato, persone in grado di lasciare tutto per cercare incerta fortuna e vita altrove?

Mi spingono la volontà, la voglia e l’esigenza di raccontare, perché raccontare la vita degli altri, nel caso di un fotogiornalista, non è solo un lavoro: diventa una necessità. Quelle vite, quelle storie, senza qualcuno che le narra sarebbero invisibili; nei loro occhi leggo copioni già visti, simili eppure diversi ogni volta. I motivi sono analoghi, guerra, fame, cambiamenti climatici, violenze, diritti negati cui si accompagna un unico scopo: la sopravvivenza. Ciò che tutti cercano, in fondo, è ridare dignità alla propria persona, inseguendo, attraverso difficilissimi viaggi, la serenità che nei luoghi natii è sparita. Il motivo che mi spinge ad andare avanti dopo tanti anni, è la “necessità’” il dovere di raccontare quelle storie.

Memoria e Ricordo sono concetti che, nella parabola migratoria, si scontrano con quelli afferenti al mondo benestante. In che modo la cecità del nostro Occidente si interseca con lo sguardo teso all’infinito di chi sceglie di mettere in gioco la propria vita, emigrando?

Nei Paesi occidentali si è alzato un muro invisibile tra chi vive nel benessere e chi sopravvive, forse per la paura delle classi abbienti di perdere il proprio benessere; si guarda a quelli definiti “ultimi” con il terrore che possano derubare la prosperità raggiunta. Ciò ci rende ciechi, privi di empatia. C’è poca attenzione verso la memoria o, addirittura c’è volontà di non affrontarla eticamente. Altre volte si ha come l’impressione che siano i potenti ad approfittarne, mettendo gli uni contro gli altri quelli che potremmo definire “penultimi” e “ultimi”, creando odio – si pensi alla politica sulle migrazioni. Si apre, così, una guerra mediatica tra chi cerca un posto a questo mondo, e chi, invece, vuole mantenere le distanze a tutti i costi, per non perdere il proprio status.

Isola di Lesbo, settembre 2015. Le 50 persone sulla barca alzano le braccia in segno di vittoria, quella di chi è riuscito a sfuggire alla guerra e riesce a toccare la terra della salvezza. Alle loro spalle, la costa turca.

Reportage: ieri e oggi, cosa è cambiato e quanto pesa il ruolo della politica nazionale e internazionale, delle associazioni non governative et similia, nelle scelte di un fotoreporter?

Il fotoreportage è invariato nei suoi aspetti base: restano lavori commissionati, freelance, frutto di uno studio, di un progetto che racconta quanto succede. È cambiato l’approccio, oggi è molto più veloce, dettato dalle necessità dei giornali di ridurre, anche per motivi economici, assegnati e giornate per un reportage. Il fotogiornalismo ha sempre riguardato un numero ristretto di professionisti, tuttavia oggi non è più così. Qualcuno dice che la fotografia sia morta, e invece, mai come adesso è viva: in ogni angolo del pianeta c’è qualcuno che, con mezzi diversi – perché è cambiato anche il modo di fotografare – riesce a raccontare storie. È ovvio che assegnare un reportage a un professionista significa scegliere un certo tipo di approfondimento, un’indagine che, però, spesso viene a mancare per motivi economici.

La politica ha un ruolo fondamentale in tutto questo perché, soprattutto per temi sociali come l’emigrazione, tende a imbavagliare un certo tipo di stampa, aumentando la distanza tra chi deve essere raccontato e chi vuole raccontare, negando la possibilità di accedere ad alcuni luoghi: di confine, sbarco, i campi, le vie di transito. In ambito internazionale, si pone contro le organizzazioni, tentando di vincolare le ONG e, quindi, chi racconta. Fino a qualche anno fa era desiderio di tanti reporter salire su una delle molte navi presenti nel Mediterraneo, oggi, sia per il numero inferiore di imbarcazioni ma soprattutto per la paura di restare bloccati per settimane prima dell’autorizzazione allo sbarco, le testate e gli stessi fotogiornalisti ci pensano bene prima di inviare un corrispondente o di salire a bordo.

Mar Libico, novembre 2016. Persone immobili atttendono il lancio dei giubbotti di salvataggio: ogni minimo movimento può causare un rovesciamento dell’imbarcazione e provocare vittime. Il gommone fu raggiunto dalla nave ONG MOAS: circa 1300 persone furono tratte in salvo, 450 vennero fatte sbarcare nel porto di Vibo Valentia.

La migrazione, secondo te, è negazione di umanità?

Chi scappa dai luoghi natii subisce sempre una negazione o ha visto calpestare i propri diritti. La migrazione, in tali casi, è una negazione alla vita. Poi c’è chi migra, anche nei nostri Paesi, semplicemente per cambiare e migliorare il proprio stile o la qualità di vita, senza che ci sia alcun obbligo o imposizione: in queste occasioni, non si può parlare di negazione ma solo di scelta.

Credi che tutti noi, dinanzi alle scene e ai momenti che ritrai, potremmo esser pronti a non porci più come barriere per le vite altrui?

Una parte di chi osserva quelle foto è e sarà sempre pronta, perché attraverso l’empatia comprende le motivazioni che spingono a compiere quello che i miei reportage raccontano, e mostra solidarietà verso gli altri. Un’altra parte, quella che fa rumore, non capirà mai tali motivazioni, per ideologia, per chiusura mentale. Appare chiaro quanto queste due parti non possano dialogare, anche se mi auguro che in futuro riusciremo ad avere uno sguardo empatico e solidale. Ora, poi, con l’eco del web è più facile trovare e leggere parole di odio; sono certo che la medesima cosa accadesse anche trenta o quarant’anni fa, ma circoscritta a gruppetti che si incontravano al bar, all’edicola, in una piazza, senza troppa risonanza.

Burkina Faso, novembre 2018. Uno dei tanti ragazzini che lavorano nelle miniere, tra i 15 e i 20 metri di profondità, alla ricerca di oro.

Progetti futuri?

Per venticinque anni ho fotografato tutti gli aspetti legati alla parte emergenziale delle migrazioni: dalla ricerca di soccorso, ai salvataggi, dai transiti agli sbarchi. Ora mi piacerebbe continuare quanto ho iniziato da un paio di anni: raccontare le cause del perché ciò accade, delle persone che scappano e delle loro vite, raggiungere i loro Paesi, mostrare a tutti che sono molti, troppi coloro che fuggono a causa di guerre e povertà.

Ho iniziato dall’Etiopia e dal Burkina Faso, che non registrano un gran flusso migratorio verso l’estero, ma verso aree interne al Paese. Esiste, infatti, una narrazione sbagliata, un’idea collettiva errata: si pensa che le migrazioni avvengano verso il nord o l’Europa. In realtà oltre il 70% si consuma nell’ambito di confini territoriali più stretti, come Paesi limitrofi nello stesso continente, da Est verso Ovest, o Sud. Mi piacerebbe riuscire a raccontare quelle cause che, nonostante appaiano semplici da narrare, sono avvolte da tanta, troppa cecità.

Campo profughi di Lipa, Bosnia ed Erzegovina, gennaio 2021. Dopo l’incendio del 23 dicembre 2020 in cui il campo è stato completamente distrutto, per un mese i rifugiati (tra le 700 e le 1000 persone) hanno vissuto in tendopoli senza alcun riscaldamento o riparo dalla neve.

Oggi, forse, Francesco Malavolta è altrove, a fotografare, a scoprire le storie che sente la necessità – morale, etica, civile – di divulgare perché il resto del mondo sappia cosa accade a chi è in un limbo di disperazione, incertezza, sul proprio futuro e sul proprio presente mentre, per sopravvivere, cancella il proprio passato. Ogni fotografia di Francesco Malavolta è la metafora di un mondo che l’uomo ha reso vivibile senza armonia o equilibrio, dove la forza è nelle mani di pochi. Quei pochi, senza rendercene conto, siamo noi. Ciechi dinanzi alle altrui difficoltà, pronti a “indignarci” per le sciocchezze mutuate dal flusso di notizie in cui verità e menzogna si mescolano incontrovertibilmente. La dignità, l’identità che l’Occidente, noi, abbiamo strappato alle persone che adesso respingiamo con ogni mezzo è qualcosa con cui fare i conti. I morti tra le onde del Mediterraneo sono i nostri morti. Il freddo e la fame patiti dai migranti bloccati nel gelo dei Balcani sono il nostro freddo e la nostra fame. I bambini che restano orfani sono figli della disperazione e della nostra indifferenza.

In una società abituata alla spettacolarizzazione del dramma, le immagini di questo infinito viaggio al confine dell’umanità potrebbe far meno scalpore dell’ultimo gossip. E la tristezza vera, è che siamo noi ad essere molto più poveri, molto più “ultimi” di coloro che definiamo tali, nella sprezzante superiorità del nostro essere occidentali. Ascoltare Francesco Malavolta, la voce che racconta cosa i suoi occhi hanno visto, le sue orecchie sentito, il suo animo compreso non è semplice da tradurre in un articolo; ogni suo reportage coglie il gradiente di verità che i volti, i corpi fotografati recano. Tra gli scatti qui presenti ve ne sono alcuni che considero indelebili, attraverso cui i miei occhi guardano il mare in modo differente; mi auguro accada anche a voi, perché nel dignitoso e disperato dolore che narrano è custodita la bellezza infinita della vita.

Isola di Lesbo, settembre 2015. Questo lo scenario quotidiano nelle isole di fronte alla Turchia: una volta avvenuti gli sbarchi, i giubbini di salvataggio sono abbandonati sulla costa e poi recuperati da organizzazioni per la salvaguardia ambientale al fine di limitare l’inquinamento.
Fotografie: © Francesco Malavolta

 

Approfitto di questo momento per ringraziare Francesco Malavolta: lui non sa di avermi insegnato a guardare il mondo con occhi nuovi; attraverso il suo modo di fare fotografia, il suo modo di raccontare cosa c’è oltre il nostro bel mondo. Ho cambiato prospettiva, vedo in ciò che l’antropologia storica considerava l’altro da noi semplicemente persone come noi; ripenso i confini come qualcosa da abbattere, superare. Grazie, Francesco, hai saputo fare della fotografia una lezione di vita.

Mar Mediterraneo, 2014. Francesco Malavolta a bordo di una nave. © Gregorio Borgia/Associated Press

 

 

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